XXIV del tempo ordinario C

15 settembre 2019

L’esperienza del peccato acceca, ma la preghiera restituisce quella luce che permette all’uomo di vedere la propria miseria e così chiedere perdono per se stesso e per il popolo. È l’esperienza di Davide che nel noto salmo 50, il Miserere, dopo essere stato posto davanti alla sua iniquità dal profeta Natan, raccontata nel secondo libro di Samuele al capitolo 12, si prostra davanti al Signore con le parole: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Non solo chiede pietà, ma accorgendosi del male commesso chiede a Dio: «Crea in me un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito».La richiesta di perdono e di un cuore nuovo porta il grande re e profeta Davide a lodare il Signore per la sua infinita misericordia, aggiungendo alla sua domanda la richiesta di una preghiera ben accetta a Dio: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi». Non è lui ad aprire la bocca verso Dio, ma chiede che sia Dio ad aprire la sua bocca alla lode, perché sa bene che senza l’aiuto, la grazia e la misericordia di Dio un cuore, anche se pur affranto e umiliato, rischierebbe di non convertirsi e di tornare nel profondo baratro del peccato. Dalla sua esperienza di peccato (ricordiamo come Davidesi era unito a Bersabea, moglie di Urìa l’Hittita e quando venne a sapere che la donna aspettava da lui un bambino, quindi per concubinato, fece porre il soldato dove più era fervente la mischia in guerra perché restasse ucciso, quindi meditò nel suo cuore anche omicidio volontario), ebbene dalla sua esperienza di peccato Davide desidera per sé un riscatto, una nuova possibilità, una nuova vita. Questo avvenne anche per il giovane figlio della parabola che, lasciato il padre per la sua libertà, si trova immerso nella miseria che si è cercata. Il vero peccato non è stato lo sperpero di denaro, quella ne è stata una conseguenza, ma lasciarsi alle spalle il padre. Il nostro peccato avviene quando ci lasciamo alle spalle Dio e ci cacciamo nelle scelte sbagliate che, se non ci portano alla miseria economica, ci portano a perdere la nostra dignità di uomini. Anche noi tuttavia come quel giovane possiamo tornare a Dio per chiedere perdono, per chiedergli pietà e misericordia, perché riscatti la nostra dignità perduta a motivo del nostro peccato e del nostrovoltafaccia. Lo possiamo fare con la preghiera, quella che Davide innalzò al Signore, quella stessa che il ragazzo rivolse a suo padre: «Ho peccato, contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio», ma ancor di più possiamo tornare a Dio attraverso il sacramento della Confessione, perché “un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi”. Come il Padre misericordioso della parabola non disprezzò il cuore contrito del figlio, tanto più Dio non disprezza il nostro cuore contrito e umiliato quando torniamo a lui per chiedere perdono e perché Egli torni a darci una dignità nuova, una vita nuova. Allora anche noi potremo aprire le nostre labbra e la nostra bocca potrà cantare la sua lode. Tutto questo non avviene solo per noi stessi: la nostra preghiera può innalzarsi a Dio anche per i fratelli, per le persone che ci stanno accanto, per coloro che abitano questo mondo. La nostra preghiera di perdono diventa motivo di intercessione se anche noi, come Mosè, impariamo a chiedere misericordia non solo per la nostra persona, ma per il popolo intero: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”». Siamo uomini e donne fragili e sempre inclini a peccare a motivo della nostra testardaggine che ci porta a fare e pensare a modo nostro, siamo pecorelle che spesso si smarriscono, ma la grazia di Dio è più grande del nostro male e se torniamo a lui con tutto il cuore, Egli ci ridonerà nuova vita, nuova forza, nuovo vigore per vivere in questo mondo, in questo gregge, con la gioia dei figli e non degli schiavi, perché schiavi siamo del peccato, ma liberi per la misericordia perdonante di Dio. Per questo col profeta potremo tornare a dire: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode, perché un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi».