XXVI del tempo ordinario C

29 settembre 2019

Paolo, scrivendo a Timoteo, lo chiama “Uomo di Dio”. È un’espressione che sento rivolta a me personalmente come ministro del Signore nella sua Chiesa, ma sono certo che possa essere rivolta ad ogni cristiano. Siamo tutti infatti, nei diversi ministeri e attraverso le diverse vocazioni, uomini e donne di Dio: a lui apparteniamo fin dal nostro battesimo, nel suo cuore è scritto il nostro nome e la nostra storia. A noi spetta il compito di manifestare con la nostra vita questa appartenenza a Dio. E come l’apostolo Paolo indica a Timoteo quale via seguire per manifestare questa appartenenza, così anche a noi oggi rivolge questo invito: “Tu, uomo di Dio, evita queste cose”. Di cosa parla Paolo? Ciò che l’apostolo indica all’amico Timoteo come cose da evitare, lo possiamo ritrovare nel libro di Amos: “Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria!”. La roccia della montagna è sicura, ma basta una svista per finire in un crepaccio e lasciarci la vita. Le cronache, anche delle scorse settimane, si sono tinte di nero per questo motivo. Sono molte infatti le persone che, distratte sui sentieri rocciosi di montagna, rischiano la vita a motivo della spensieratezza. Quali sono le nostre distrazioni? Quali sono i nostri pensieri che ci distolgono dal giusto sentiero che la Parola di Dio ci invita a percorrere per essere davvero sicuri? Può essere la sete di guadagno o di ricchezza materiale, come avvenne per il ricco epulone, può essere il desiderio del successo e l’avidità che chiude il nostro cuore, può essere la superficialità della nostra vita che ci fa vivere da spensierati accettando tutto senza porci troppe domande su ciò che è bene e ciò che è male. È san Paolo stesso che a Timoteo scrive: “Tu, uomo di Dio tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni”. La professione della nostra fede non esula infatti dalla giustizia, dalla pietà verso il prossimo, dalla carità verso coloro che veramente sono bisognosi e non si spacciano per tali; la professione della nostra fede si traduce anche in pazienza e mitezza, qualità proprie di chi sopporta amorevolmente anche le insidie dell’altro e le sue cattiverie, piuttosto che le difficoltà che la vita riserva e tutto questo con la mitezza di chi non mette in piazza le proprie ingiurie, le offese subite per trovare consensi, a imitazione di Cristo che come agnello condotto al macello non aprì la sua bocca. L’uomo di Dio è colui che – tornando ad Amos – non si distende su letti d’avorio e sdraiato sui suoi divani mangia gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla, perché non si approfitta delle situazioni più deboli, non prevarica sui più indifesi, come avviene spesso nel mondo adolescenziale negli eventi di bullismo, di cui spesso preferiamo non sentirne parlare forse perché pensiamo che non ci riguardi, dimenticando di combatterlo e aiutare i nostri ragazzi a debellarlo. Ancora: l’uomo di Dio non canterella al suono dell’arpa bevendo il vino in larghe coppe e ungendosi con gli unguenti più raffinati e non si preoccupa della rovina di Giuseppe, ovvero non si preoccupa della rovina della sua vita e della vita di chi gli sta intorno. Se siamo uomini e donne di Dio evitiamo ciò che ci allontana da lui, ciò che ci fa chiudere nelle nostre false sicurezze e vanità e tendiamo a ciò che è giusto, vero e santo, che fa della nostra vita una continua lode a Dio e un servizio amorevole verso la Chiesa nella quale viviamo, diventando testimoni autentici della fede che ci permette di raggiungere la meta eterna alla quale siamo stati chiamati, per una ricompensa non umana, non terrena, non materiale, ma divina e di gioia senza fine.