XXV del tempo ordinario A

20 settembre

Dopo aver accolto tutti nella sua vigna per dare a ciascuno la possibilità di lavorare, il padrone si sente stretto in una protesta sindacale: infatti nel ritirare la paga uguale per tutti, i primi ad esservi entrati mormoravano contro il padrone dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». Beh, questo atteggiamento del padrone lascia un po’ delusi e perplessi anche noi che ascoltiamo questa parabola. Dove sono finiti tutti i diritti dei lavoratori? Ma soprattutto dove è la giustizia?

È strana la risposta del padrone: amico, non ti faccio torto, perché ti do quanto hai convenuto con me. Vero anche questo. Ma la nostra logica darebbe giustamente ragione a quei poveri lavoratori che, dopo aver sopportato il peso della giornata, si ritrovano a ricevere come chi ha lavorato un’ora sola.

Se questa fosse l’immagine del giudizio universale, significa allora che anche chi arriva a convertirsi all’ultimo minuto avrebbe la meglio conquistandosi la vita eterna? Sì.

Anche questo non rientra nei nostri schemi. Chi ha vissuto una vita santa, perché viene trattato come chi l’ha vissuta in modo sregolato e si è convertito solo all’ultimo?

I motivi sono semplici:

prima di tutto la conversione, che avvenga all’inizio, a metà o alla fine della vita poco importa; ciò che conta è questa avvenga e avvenga non per opportunismo, ma sia sincera;

il secondo motivo ce lo ha detto Gesù stesso: “tu sei invidioso perché io sono buono?”.

Se Dio è così buono da perdonare le iniquità dei suoi figli che anche all’ultimo si convertono, perché ce la prendiamo? Piuttosto, perché non gioiamo di quello che noi chiamiamo “meglio tardi che mai”, anziché provare ancora, con un piede nella fossa, rancore, invidia, gelosia e bramosia di vendetta? Non ce la facciamo a gioire per il bene che l’altro ritrova, non ci riusciamo a esultare perché agli altri le cose vanno bene, facciamo fatica a vedere gli altri felici della loro vita; preferiamo sempre fare confronti, vedere chi ha preso più di noi, chi è più avanti nelle classifiche, chi è più esposto al successo. Un po’ come fanno i nostri adolescenti e non solo: sono in gara perenne per chi ha più visualizzazioni sui social, chi ha più “mi piace” e chi è più avanti in questo moto perpetuo che non si estinguerà mai. Anche io, non nascondo, che tante volte esigo più riconoscimenti, guardo al successo che hanno gli altri e me ne dispiaccio, mi confronto a livello pastorale e quanto altri confratelli sono più ammanicati di me, invece di preoccuparmi di dare il meglio senza fare confronti, lasciando poi al Signore di raccogliere ciò che ho dato e di darmi la giusta paga.

Siamo uomini e proprio per questo facciamo fatica a comprendere ciò che Dio ci ha detto attraverso la bocca del profeta: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”. Il nostro modo di pensare e di intendere le cose non è secondo gli schemi di Dio. Sicuramente con queste sue parole Egli non vuole dirci che le ingiustizie sociali siano cosa superata e non vuole nemmeno dirci che il suo modo di agire sia ingiusto. Vuole solo aiutarci a comprendere una cosa, quella importante:“L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona”. Quando impareremo questo, non passeremo più la vita a fare confronti, gare di successo, a provare rabbia e invidia, rancore e voglia di vendetta, ma gioiremo perché avremo incontrato Dio e avremo aiutato qualcuno a incontrarlo contribuendo così alla sua più vera e autentica conversione. Anche se all’ultimo minuto. “Meglio tardi, che mai”.