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XXIX del tempo ordinario A

22 ottobre 2017

Finché si tratta di dare a Cesare quello che è di Cesare ci può stare, ma quando si tratta di dare a Dio ciò che è di Dio perché la gente sparisce? Certo, il Signore se sistemasse anche quei conti in sospeso che abbiamo con Cesare che oggi come allora si chiamano tasse, allora Dio non sarebbe così bisfrattato dalla vita dell’uomo. Ma proprio perché Dio e Cesare sono estranei l’uno all’altro, siamo qui duemila anni dopo a rendere a Cesare ciò che è di Cesare, ma a Dio cosa rendiamo? Ci sono alcune espressioni nel libro di Isaia che sarebbe bene analizzare e tener presente. La prima: “Per amore di Giacobbe, mio servo, e d’Israele, mio eletto, io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca”. Dio si mostra come colui che ama, che per l’uomo ha fatto ogni cosa solo per amore. Cos’era Giacobbe se non un minuscolo popolo, il popolo d’Israele? Eppure Dio lo ha amato. Se prendiamo tra le mani l’Antico Testamento e leggiamo le vicende del popolo d’Israele comprendiamo quanto Dio abbia amato quel popolo che sulla carta geografica ricopriva una minima parte di terra. Dio lo ha amato al di là di tutti i voltafaccia che quel minuscolo popolo ha presentato a Dio; Dio lo ha amato con pazienza e lo ha perdonato tutte le volte che si è manifestato infedele; Dio lo ha amato a tal punto da mandare per questo popolo il suo unico Figlio “dicendo: «Avranno rispetto per mio figlio!». Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: «Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero”. Sì, lo uccisero perché la sua parola dava fastidio. Questo è quanto ha fatto Dio per Israele e quanto ha fatto Israele con Dio. Noi? Cosa rendiamo a Dio per quanto egli ci dona? Se dovessimo fare l’elenco di tutte le cose che Dio ci dona sarebbe un’interminabile lista e allora limitiamoci a chiederci quante volte ci fermiamo per ringraziare Dio per tutti i suoi doni. Penso mai abbastanza. Sì, potrebbe esserci chi contesta questa cosa provando rabbia verso Dio per quei momenti di fatica e di sofferenza che la vita riserva. Ma è proprio la vita che ce li riserva, non è certo Dio a volerli. Può forse un padre impedire che il figlio si faccia del male? Alcune volte sì e magari non lo fa, altre volte invece non può che prendere atto del male che il figlio si è arrecato e non può che fasciargli le ferite. Ecco, questo è Dio: ci guarda, ci osserva, vorrebbe tenerci per mano affinché non compiamo scelte sbagliate che ci arrecano male e lo arrecano anche ad altri, ma spesso siamo noi a non volere quella mano; invece sugli imprevisti e sugli inconvenienti più gravi, quale malattia e morte, Dio non può che farsi accanto per curare le ferite che il dolore lascia. E allora, riusciremo anche solo a ringraziare Dio per la sua premurosa presenza accanto alla nostra vita o qualora fossimo arrabbiati con lui preferiamo continuare in questo nostro stato di avversità a Dio? La seconda espressione che troviamo nel libro del profeta Isaia è questa: “Io sono il Signore e non c’è alcun altro, fuori di me non c’è dio; ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci, perché sappiano dall’oriente e dall’occidente che non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri”. Ne siamo così certi? Se il Signore Gesù chiedesse a noi oggi, come ai suoi primi discepoli: «Che cercate?», non risponderemmo forse la salute, la gioia, la felicità? Certamente cose importantissime, ma perché dimentichiamo di rispondergli anche: l’onore, i soldi, il potere, il prestigio, la gloria, la fama, il riconoscimento, gli applausi per quanto facciamo? Anche queste sono cose che il cuore dell’uomo cerca quando non mette Dio al primo posto ma quanto questa terra offre. Allora sì possiamo dire che a Cesare rendiamo ciò che è di Cesare perché siamo costretti dalla legge, ma a Dio non riusciamo ancora a rendergli quel posto che gli spetta nella nostra vita, perché la nostra stessa vita sia davvero più gioiosa e più felice, meno arrancata nel cercare quelle cose che oggi portano l’uomo al settimo cielo per qualche istante o per tutta la vita, ma che lo mettono tre metri sotto terra quando cade in depressione e nella paura di non farcela perché al proprio fianco non ha Dio. Cercare Dio significa cercare ciò a cui Dio ci chiama. Rendere a Dio ciò che è di Dio significa dargli il giusto posto perché egli non smetta mai di farci comprendere qual è il nostro giusto posto. Possa farlo capire ai ragazzi che si chiedono: «Cosa farò da grande?»; possa aiutare gli adolescenti che sono incasinati dalle paranoie della vita e non si pongono obiettivi da perseguire; possa aiutare i giovani che si interrogano sul loro futuro prossimo; possa aiutare gli adulti perché a loro volta aiutino le giovani generazioni ad accogliere il progetto di Dio sulla loro vita, anche se questo progetto può comportare sacrifici e rinunce nella vita personale, matrimoniale, sacerdotale, lavorativa o scolastica. Ecco: diamo allora a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.