XXXI del tempo ordinario A

5 novembre 2017

Se può sembrare che Gesù cambi discorso rispetto a quanto detto circa l’amore per Dio e per il prossimo, in realtà non è così. Egli infatti, dopo averci detto che la vita cristiana è come una moneta a due facce, ovvero associando l’amore verso Dio con quello verso il prossimo, ora ci dice che questo amore si manifesta nella coerenza di vita. E per fare questo discorso attacca i più incoerenti: gli scribi e i farisei, ovvero quelli che dicono di amare Dio, ma poi non amano il prossimo, perché «legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito», dice il Signore. Portata all’oggi questa parola è rivolta dritta dritta ai preti, senza mezze misure. «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno». Praticamente mi sto sentendo dire dal Signore che predico bene, ma razzolo male. Per continuare il discorso aggiunge: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze», alla prova dei fatti è una questione di vanità che la mia categoria deve vincere, perché ciò che facciamo non deve essere fatto per essere ammirati o osannati, ma in tutta umiltà, in totale silenzio e in pieno spirito di servizio. E rincarando la dose conclude: «[si compiacciono] di essere chiamati “rabbì” dalla gente», che tradotto significa che gli appellativi con cui i preti sono chiamati li gonfiano non poco di orgoglio: don (che proviene dal latino dominus, cioè signore), monsignore, prelato d’onore, eccellenza, eminenza e via di seguito. Sembra che i titoli dicano l’onore, ma in realtà sono oneri, che non posso e non si devono dimenticare. A questo riguardo anche il grande san Carlo Borromeo ha parole forti contro i preti che cercano più l’onore che il dovere del servizio. Negli Atti della chiesa milanese, di cui è stato grande vescovo, troviamo i suoi discorsi e in occasione dell’ultimo sinodo egli dice: “Facciamo il caso di un sacerdote che riconosca bensì di dover essere temperante, di dover dar esempio di costumi severi e santi, ma che poi rifiuti ogni mortificazione, non digiuni, non preghi, ami conversazioni e familiarità poco edificanti; come potrà costui essere all'altezza del suo ufficio?”; e rivolgendosi direttamente ad ogni sacerdote aggiunge: “Dà sempre buon esempio e cerca di essere il primo in ogni cosa. Predica prima di tutto con la vita e la santità, perché non succeda che essendo la tua condotta in contraddizione con la tua predica tu perda ogni credibilità”. Non sono parole tanto digeribili, sono parole che scuotono tanto quanto le parole di Dio contenute nel libro del profeta Malachia: “Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi darete premura di dare gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su voi la maledizione. Voi avete deviato dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento”. Non posso che alzare le mani e arrendermi, riconoscere gli errori e lasciarmi guidare da questi insegnamenti, per non correre il rischio, più volte già corso, di predicare bene e agire male, diventando motivo di scandalo per coloro che il Signore mi ha affidato. Cosa desidera il Signore da noi sacerdoti se non che viviamo intensamente e nel migliore dei modi la nostra vocazione? Ma se questo discorso d’accusa contro una vocazione malvissuta da parte mia può sembrare che non coinvolga la comunità, ma serva solo per un personale esame di coscienza, in realtà ci mostra come Gesù si stia rivolgendo all’intera comunità e non solo: terminata questa sferzata, si rivolge alla gente comune dicendo: «Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». In pratica ciò che dice a me sacerdote, a noi preti e uomini di Chiesa – come veniamo chiamati comunemente – è un discorso rivolto a tutti, perché tutti facciamo parte di una Chiesa, chi seguendo una vocazione, chi adempiendone un’altra, ma tutti possiamo correre i rischi che corrono i sacerdoti, quelli di parlare bene e agire male, di cercare gli onori e non gli oneri, di esaltarsi anziché di servire il Signore nella Chiesa. A voi il compito però di aiutare i sacerdoti e me in particolare a non fare del mio ruolo un piedistallo, ma meditando le parole di san Paolo io possa viverle sulla mia pelle. Scrive infatti l’apostolo: “Fratelli, siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari”. Che sia così l’adempimento della mia vocazione, perché possa contribuire all’adempimento della vostra, miei cari.