XV del tempo ordinario B

15 luglio 2018

Siamo un numero in questo grande mondo, eppure ciascuno di noi è prezioso agli occhi di Dio. Anche il profeta Amos era un niente, come lui stesso si definisce: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro». La cosa sorprendente è che il Signore lo prende da quell’apparente nulla e – come scrive il profeta – «mi chiamò mentre seguivo il gregge e mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele». Parole stringate che non accettano perdita di tempo. Come per il profeta Ezechiele o Isaia, o qualsiasi profeta, anche per Amos non ci sono scusanti che tengano. Il Signore non ci chiede se vogliamo essere suoi profeti, annunciatori della sua Parola, ma ce lo ordina, quasi a dirci che anche se siamo imbranati e impacciati nel parlare, benché le lingue lunghe di paese non si smentiscano mai, abbiamo nel nostro DNA di figli di Dio questo gravoso compito dal quale non possiamo sottrarci. Amos ha cercato di prendere tempo, di far capire al Signore che la sua condizione sociale non era quella delle più ideali per essere suo profeta, ma il Signore non ne vuole sapere: Va’, profetizza al mio popolo Israele. Non saremo abili con la teologia, non saremo grandi oratori in materia biblica, non abbiamo in noi l’ordine presbiterale per farci salire su un pulpito a predicare, ma abbiamo tutti una vita che può rendere buona testimonianza al Vangelo, forse già a partire da quelle lunghe lingue che lo tradiscono. E allora non dobbiamo porci troppe questioni, magari dobbiamo osare un po’ di più, essere meno titubanti di fronte al popolo, ben coscienti che tante volte parlano di più i fatti che le parole stesse. Il Beato Paolo VI diceva che il nostro tempo non è più quello di troppe parole, ma della testimonianza con i fatti. E allora non serve, come per Amos, un particolare titolo di studio accademico per essere profeta, ma solo la buona e santa volontà di tradurre nei fatti il Vangelo che ascoltiamo, senza però correre il rischio di tirare il Vangelo dalla nostra parte o far dire al Vangelo cose che non ha mai detto per giustificare una qualsiasi nostra posizione. Il Vangelo infatti si incarna nella nostra storia, nelle vicende del nostro tempo e non basterà dire: «Il Vangelo dice così e così», solo per metterci apposto la coscienza, ma occorrerà viverlo in conformità con il mondo con cui ci relazioniamo. E allora accogliamo anche noi le indicazioni di Gesù per una buona predicazione del Vangelo: né pane, né sacca, né denaro; calzare sandali e non portare due tuniche, ma solo un bastone. Il Signore vuole ridurci all’essenziale per essere buoni predicatori: niente pane, niente valigia, niente denaro. La ricchezza e l’opulenza ci distolgono dall’annunciare una vita serena e bella come desidera il Signore per noi. Chi infatti si attacca alle cose materiali sa bene di non essere in pace con se stesso e col mondo che lo circonda. Chi ha troppe ricchezze non può che chiudersi in se stesso per difenderle e la difesa denota una certa paura e la paura porta a non vivere serenamente. Chi pensa solo alle cose della terra, come potrà proclamare le cose del Cielo? Solo una tunica, un paio di sandali e il bastone del pellegrino: giusto il necessario per coprirsi e camminare non troppo comodamente, per non adagiarsi e prendere con comodità, o meglio sotto gamba, questo impegno e poi il bastone non della vecchiaia ma il simbolo del sostegno perché essere profeti e apostoli richiede certamente fatica. Quel bastone di cui parla il Signore non è altro che figura sua che sempre ci accompagna e sempre ci sostiene. Lo dice anche Davide, grande re e profeta, quando nel salmo 22 canta: “il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Il Signore che ci chiama ad essere profeti e annunciatori con la vita della sua parola non ci lascia soli. Ci manda, ma non ci abbandona: egli è sempre al nostro fianco e opera lui con noi. E se il profeta o l’apostolo incontra qualche difficoltà? Se il cristiano di oggi non viene ascoltato, non viene preso in considerazione o addirittura beffeggiato? Non per questo deve rinunciare alla sua missione. Ce lo dice Gesù stesso istruendo ancora i Dodici: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». E allora cosa aspettiamo? Quanto tempo dobbiamo prenderci ancora? Quante scuse vogliamo ancora inventarci per sfuggire a questo compito che abbiamo dentro fin dal giorno del nostro Battesimo. Facciamo anche noi come i Dodici che, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Magari non avremo demòni da scacciare, ma essere di buon esempio perché molti possano convertirsi guardandoci, quello sì; avremo anche malati da visitare e sollevare nella fatica della loro sofferenza e se non riusciremo a guarirli fisicamente, stiamo certi che saranno proprio loro a guarire il nostro cuore a volte così chiuso alla grazia di Dio.