XXX del tempo ordinario C

27 ottobre 2019

Il tema della giustizia è quanto mai discusso e discutibile. Sembra infatti, almeno nella nostra Italia, che la giustizia faccia acqua da ogni parte. Ma senza entrare nei tribunali, pieni di fascicoli aperti e mai chiusi, caduti in prescrizione o lasciati impolverire, sappiamo come la giustizia non trova sempre tutti d’accordo. Cosa è giusto? Cosa non lo è? Sembra infatti che la giustizia sia piuttosto relativa: per alcuni tal cosa è giusta, per altri la stessa è sbagliata. È un sottile ago di bilancia, a seconda da che parte penda. Non a caso gli antichi raffiguravano la giustizia come una signora che regge in mano una bilancia. Chi è giusto nel valutare? Chi è colui che si assume la responsabilità di stabile ciò che è sbagliato? I giudici stessi si trovano a consultare leggi ed applicarle, ma sorge sempre la questione morale se una legge sia giusta o sbagliata. Insomma, una questione scottante che forse non sarà mai risolta. Davanti a Dio, però, noi ci poniamo con la certezza che Egli è il giudice giusto, anche se talvolta non lo riteniamo tale. Infatti la nostra fragilità umana ci porta a chiedergli perché tante ingiustizie nel mondo, perché i bambini soffrono, perché i più deboli soccombono, perché malattie e morte a persone buone e non ai malvagi? Perché? I nostri perché salgono a Dio come richieste, perché abbiamo bisogno di risposte. Ma una grande lezione Gesù ci impartisce nel suo Vangelo: quando siamo davanti a Dio non dobbiamo aver la pretesa di essere giusti e cercare di dare risposte che soddisfino i nostri perché. Davanti a Dio dobbiamo metterci con l’umiltà del pubblicano che sa di essere il primo peccatore e prima di guardare alle ingiustizie altrui fa il suo esame di coscienza chiedendo a Dio che lo perdoni. Diversamente il fariseo, che aveva la presunzione di essere giusto, si pone innanzi a Dio con un cuore superbo, gonfio di se stesso, credendo che giusto sia lui, ciò che fa e ciò che ritiene giusto. La conclusione che Gesù ne trae è quanto mai significativa e non deve essere equivocata. L’equivoco: è alla portata di mano di ognuno. Spesso infatti equivochiamo parole, notizie, sentenze. L’equivoco nasce proprio quando pretendiamo di essere nel giusto e non badiamo a ciò che l’altro ha detto. Spesso una frase ascoltata solo per metà equivoca e stravolge tutto il senso. Un conto è dire: «Non voglio più vederti», un conto è dire: «Non voglio più vederti fino a quando non fai ciò che è giusto». Una sorta di ammonimento per incitare alla giustizia. Ma quanti altri esempi possiamo fare e in quanti equivoci incappiamo: anche in una famiglia, tra marito e moglie, tra genitori e figli basta una distrazione che le parole vengono equivocate, basta una comunicazione non corretta che si equivoca tutto. Sì, è il caso di dirlo: non abbiamo più il vino buono della comunicazione nelle nostre relazioni e questo porta a molti equivoci, a tanti litigi, non solo tra amici, ma spesso negli sposi stessi, dando a volte inizio a uno scenario purtroppo triste, che finisce anche nei tribunali già citati. Ebbene, anche con il vangelo si può cadere in equivoci: prendiamo la conclusione della parabola quando Gesù dice che il fariseo tornò a casa con la sua superbia, mentre il pubblicato, riconoscendosi peccatore, torna a casa giustificato. Ma cosa significa giustificato? Sbaglieremmo a pensare che Dio accetti i peccati, le ingiustizie e le malvagità chiudendo un occhio e facendo finta di niente. Non bisogna cadere in questo equivoco. Giustificare non significa nemmeno ritenere giusta una cosa sbagliata, come potremmo interpretare la conclusione di questo brano evangelico. Giustificare significa rendere giusto: ciò che è reso giusto non è il peccato di quell’uomo, come di ogni uomo, ma ciò che Gesù ritiene giusto è l’atteggiamento di quell’uomo umile e dal cuore contrito. È quanto mai vero che nel mondo di oggi si giustifica ogni cosa: il mio primo pensiero va a mia nonna, che davanti ai rimproveri di mio padre per qualche sbaglio, diceva sempre: «Poverino», infiammando ancor di più mio papà che,giustamente, non sopportava giustificazioni di fronte a uno sbaglio. Non so se è un atteggiamento di tutti i nonni, sicuramente di molti genitori di oggi sì, perché giustificano tanto, cadendo nell’equivoco di ritenere giusto anche ciò che non è, finendo col confondere il comportamento dei ragazzi stessi, che crescono senza la percezione e la coscienza di ciò che è giusto e ciò che non lo è. Torniamo al Signore: egli non giustifica il peccato, così come noi non dobbiamo giustificare ciò che è sbagliato; egli giustifica l’atteggiamento di quell’uomo, perché anche noi impariamo e insegniamo a nostra volta cosa sia l’umiltà di chi riconosce i propri sbagli e sa chiedere scusa, sa chiedere perdono a Dio e ai fratelli. La giustizia di Dio allora non è semplicemente quella di schierarsi da una parte o dall’altra, ma quella di aiutarci a comprendere che dallo sbaglio e dal conseguente pentimento può nascere una vita nuova, una vita nuova che troviamo nel sacramento del perdono, della riconciliazione, della misericordia. Dio è così grande nell’amore che attraverso la croce del suo Figlio ha reso giustizia al mondo, ovvero ha perdonato il mondo per i suoi peccati, facendo pagare questi al suo Figlio innocente. Questo non significa che siamo giustificati a compiere ogni sorta di male, perché tanto lui perdona e per il nostro male ha già pagato lui; questo significa che proprio perché lui ha pagato per noi, noi siamo chiamati a tornare a lui per chiedere perdono e sperimentare attraverso la sua misericordia la bellezza di tornare ad essere giusti, capaci di cose giuste, capaci di giustizia. Come può chiedere giustizia chi non è giusto? Solo attraverso il perdono, chiesto dal pubblicano e non dall’ipocrita fariseo, anche noi potremo godere di quella giustizia divina che tiene conto più del pentimento vero che non del male fatto. Così, tornati ad essere giusti, saremo capaci di ritrovare il buon vino della giustizia in un mondo che la chiede come manna dal cielo.