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Cena del Signore

Giovedì Santo, 9 aprile 2020 

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Sì, anche noi non capiamo il senso di tante cose, come non capiamo il perché del dolore e della sofferenza, di questa sofferenza che ci ha messo in ginocchio, come Gesù ai piedi dei suoi discepoli. È lì, Gesù, che vuole lavare i piedi dei suoi apostoli: piedi belli o sporchi, perfetti o storpi, ben curati o sudici. È inginocchiato a terra Gesù, come noi in questo periodo. Forse vuole venire da noi per versare sulle nostre ferite l’acqua della carità e dell’amore, l’acqua che, diventata vino a Cana di Galilea, oggi non è certo quello della festa, ma speriamo quello della consolazione che disinfetta le ferite anche mortali lasciate da questa epidemia. È lì in ginocchio Gesù, come siamo in ginocchio noi, e versa sulla nostra vita l’acqua del suo amore per noi, l’acqua con cui ci laviamo non solo i germi che portano alle infezioni, ma soprattutto il cuore così pieno di rabbia e di dolore da diventare il catino nel quale raccogliere le nostre lacrime nella speranza che queste siano accolte da lui e possano lavare questo mondo dalle cattiverie di cui esso è pieno, come è pieno di questo virus. Eppure Gesù non resta chinato a terra sui piedi di quei traditori, che di lì a poco, vista la mal parata, se la danno a gambe e muovono i loro piedi ben puliti e profumati per fuggire, per paura. Che strano! Prima il Signore lava loro i piedi, si prende cura di una delle parti del corpo che più detestiamo, perché sporchi di tutto quello schifo che raccogliamo nel mondo e quegli stessi piedi, così alleggeriti dopo quel bagno di amore, anziché restare fermi nella difesa del maestro, si mettono in moto per scappare. E pur sapendo questo Gesù non resta chinato su quei piedi, ma si rialza, si mette a tavola e spezza il pane per loro. Istituisce l’Eucaristia donandoci pane e vino come sostegno al cammino della nostra vita. Sembrava aver previsto tutto. A quei piedi purificati dall'amore che non sapranno dimostrargli amore, dona la forza non tanto per scappare, quanto per ritornare a lui, dopo la sua morte, e diventare piedi leggeri e profumati da portare in tutto il mondo la Grazia dell’Eucaristia come forza ineguagliabile per la vita fragile e debole dell’uomo. In questo tempo nel quale ci è stata negata la partecipazione all'eucaristia, anche se non la comunione spirituale, attraverso i mezzi di comunicazione abbiamo, almeno spero, sentito ancor più evidente la necessità di nutrirci di pane e di dissetarci di questo vino. E questo pane e vino, Corpo e Sangue di Cristo, se ci mancano materialmente non ci possono mancare spiritualmente, perché il Signore, presente da quel Giovedì Santo in mezzo a noi, possa dare forza ai nostri piedi fiacchi dal dolore per continuare a spargere nel mondo, nelle nostre case e, speriamo presto, nella comunità il buon profumo di una vita nuova che questa epidemia ci ha permesso, forse, di riacquistare, una vita nuova non dettata dalla presenza di un virus, che confidiamo si tolga presto dai piedi, ma una vita nuova imposta a noi dalla carità, dall'affetto, dalla solidarietà sperimentata in questi tempi. E allora non ci sarà più tempo di invecchiare sputandoci addosso quel virus letale e contagioso che è l’odio o la cattiveria che dir si voglia, ma ci sarà bisogno di fare ciò che ha fatto il Signore: imparare a lavarci i piedi gli uni gli altri con l’acqua della carità, che sull'altare della nostra vita diventa il vino dell’amore, un vino così buono che, divenendo Sangue di Cristo sulla mensa eucaristica, diventa capace di vincere ogni virus che non segna il corpo umano, ma le profondità dell’anima. Ora possiamo capire solo questo e forse capiremo col tempo ciò il Signore ha fatto ai suoi discepoli e oggi a noi, anche in queste tristi vicende: lasciamoci lavare i piedi da lui, laviamoceli gli uni gli altri e quando ci verrà voglia di scappare lontano dal Signore, chiediamo a Lui che l’Eucaristia ci doni la forza di tornare indietro per portare, là dove viviamo, segregati o in modo libero, la forza e la bontà dell’amore.