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III di Pasqua A

26 aprile 2020

Domenica della Riconciliazione

È cosa buona specificare che Pietro si alzò in mezzo al popolo nel giorno di Pentecoste, tenendo un discorso tutto incentrato su Gesù, morto e risorto per la nostra salvezza. Non solo morto e risorto, ma ucciso da quello stesso popolo per mano dei pagani, ovvero dei soldati romani. E quel Pietro che punta il dito contro il popolo senza temere ritorsione alcuna, è lo stesso Pietro che la notte dell’arresto di Gesù dichiarò per ben tre volte di non conoscere il Maestro. È lo stesso che corse al sepolcro per assicurarsi che quello che dicevano le donne – che cioè il corpo di Gesù non era più là – e, pur tornando con un briciolo di fede, non brillò di euforia, tanto che qualche giorno dopo, tornato in Galilea, disse agli altri di voler tornare a pescare, cioè a fare quello che più era capace di fare, ovvero il pescatore, proprio come lo era prima di incontrare Gesù nella sua vita. Era lo stesso Pietro che dopo aver preso il largo e non aver preso niente – forse per la seconda volta nella sua vita – non aveva nemmeno riconosciuto Gesù risorto che passeggiava sulla riva del mare ed era quello che mentre Gesù gli chiedeva se lo amasse più di tutti, rispondeva con un semplice: «Ti voglio bene». Ecco perché è bene specificare che Pietro, con fervore, si mise a predicare in mezzo alla folla e ad accusarla anche dell’omicidio di Gesù proprio nel giorno di Pentecoste, perché senza l’intervento dello Spirito Santo ricevuto poche ore o qualche minuto prima non avrebbe avuto né la forza, né il coraggio di testimoniare Gesù Cristo risorto, ma sarebbe ancora sulla sua barchetta a pescare pesci, anziché uomini. Insomma, Pietro era l’ultimo che poteva prendere la parola per una bella testimonianza, poiché l’incoerenza sarebbe stata la sua giusta condanna. Eppure sembra proprio riscattarsi, ma questo, capiamo, non viene da sé, ma da quel triplice «Mi ami?» che voleva perdonare quel triplice «Non lo conosco». E il perdono non tardò.

Con Pietro e tutti gli altri si uniscono gli amici, i discepoli, coloro che avevano seguito Gesù nella sua vita terrena e che si erano lasciati catturare dalla sua parola, dai suoi insegnamenti, dal suo stile di vita che noi chiamiamo Vangelo. Tra questi ecco Cleopa e l’altro, anch’egli senza nome come il gemello di Tommaso: chi sarà mai l’altro discepolo di Emmaus? Sarò io, sarai tu, saremo noi, ciascuno di noi che con aria triste e rassegnata camminiamo per tornare alle nostre case, per tornare, come Pietro, a fare le nostre cose, a sbrigare le nostre faccende con un peso in più: la delusione. Loro pensavano fosse Gesù a liberarli dal potere straniero, dall’impero romano: e invece, niente. Loro pensavano fosse Gesù a farli regnare e dar loro gloria: e invece, niente. Loro pensavano di aver trovato un amico che sistemasse i loro problemi, che avesse concesso loro una vita altolocata, che avesse sconfitto in un batter d’occhio un’epidemia colossale che si stava abbattendo sul mondo: e invece, niente. «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto», dissero proprio a quello che si era posto al loro fianco e che – come Pietro – non avevano riconosciuto fosse Gesù. 

Anche noi tante volte abbiamo sperato fosse Gesù a sistemarci la vita, anche noi abbiamo sperato fosse Gesù a guarire i malati e a non far morire le persone amate e i più indifesi e innocenti, anche noi speravamo di avere un Dio che non bisognava riconoscere, perché davamo per scontato ci fosse. Anche noi, come loro.

Anche noi siamo di quelli che si lasciano offuscare la vista dalle proprie pretese e dalle proprie false aspettative, quelle che non ci permettono di vedere Dio per quello che è, ma per quello che fa comodo a noi e che, pur allontanandosi da lui e dalla Chiesa – come han fatto questi due, di cui uno siamo noi – hanno poi il coraggio di colpevolizzare lui che non si fa sentire, non si fa vedere, non si interessa a noi e ai nostri interessi. E anziché vederlo che cammina al nostro fianco, come ha fatto Gesù con loro la sera della Risurrezione, lo pensiamo tanto distante, così distante da essere capaci di insultarlo anziché chiedergli perdono. Ecco allora cosa significa vivere il sacramento della Confessione: far cadere dai nostri occhi quelle false aspettative, i nostri peccati e le nostre mancanze, per vederlo meglio, vivo e accanto a noi, anche in questi momenti di angoscia che il mondo sta vivendo. Non è facile, e anche io come Pietro sono qui a dire una cosa a cui credo, ma che fatico a vivere. Eppure il Signore ci cammina a fianco, ci prende sottobraccio, ci perdona se siamo pentiti di vero cuore e ci aiuta a ripartire col piede giusto. Ma quando andiamo a confessarci, quando torneremo a celebrare il sacramento della penitenza, non andiamo con la pretesa di essere pressoché apposto, con la nostra lista della spesa per assolvere a un dovere morale e far presto, altrimenti come quei due saremo solo capaci di trovare la colpa in Dio e negli altri, ma mai in noi, restando cechi di fronte alla grazia di Dio che non vuole farsi “gli affari nostri” attraverso il confessore, ma attraverso quel segno di croce tracciato sul nostro capo e davanti ai nostri occhi vuole liberarci dalle tenebre del peccato per donarci la luce di una vita nuova, quella che ha inizio con la Risurrezione di Cristo e la nostra.