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Pentecoste C

5 giugno 2022

 

Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Si dissero l’un l’altro: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». Ma il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro». Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. (Gen 11,1-9)

Se all’inizio gli intenti del popolo erano buoni e il valore dell’unità era accentuato, non si comprende bene perché Dio scese in mezzo al popolo per dividerli e disperderli su tutta la terra. Forse non era impossibile la loro opera, ma eccesiva la presunzione di toccare il Cielo con un dito, di arrivare a Dio con una torre, di sostituirsi a Dio. Magari è proprio per questo che Dio ha fermato quegli uomini e bloccato la loro opera, creando una confusione tale che ancora oggi la chiamiamo Babilonia, città di Babele.

La confusione di allora troverà un ricongiungimento quando Dio scende sulla terra nel giorno di Pentecoste effondendo il suo Spirito sul nuovo popolo, il popolo santo di Dio agli inizi della sua storia; questo popolo non è più quello di Babilonia, ma della Chiesa. Come, infatti, Babele, o Babilonia che sia, significa dispersione, confusione, il gergo coniato per esprimere l’unità è Ecclesìa, Chiesa, da cui il concetto di insieme.

Se all’inizio vi era una sola lingua e tutti si comprendevano, dopo l’azione dispersiva di Dio ogni luogo della terra ha iniziato a parlare la sua lingua, gode delle proprie caratteristiche, racchiude in sé i tratti che contraddistinguono un popolo dall’altro. Così nella Pentecoste Dio concede agli apostoli di parlare lingue nuove per far sì che l’annuncio del Vangelo diventasse universale: un’unica parola in diverse lingue. Questo paradosso lo viviamo anche noi oggi: siamo tanti popoli che parlano lingue diverse, ma tutti ascoltiamo la medesima parola. La bellezza dell’essere Chiesa consiste proprio in questo: nell’essere universali, capaci di annunciare in diverse lingue, ma soprattutto in diverse forme e in diversi modi la stessa ed unica parola del Vangelo. Ciascuno può farlo, ma nessuno da solo, secondo la propria interpretazione o secondo il proprio gusto a livello personale, altrimenti la Chiesa si sfascia e si torna all’antica Babele. Tutti, infatti, siamo chiamati ad agire, a parlare, ad annunciare il Vangelo nella vita quotidiana nel nome di Gesù e non a titolo personale. Chi agisce a titolo personale nella Chiesa non costruisce la Chiesa, ma la demolisce, così come le divisioni che ci sono all’interno della comunità non costruiscono l’Ecclesìa, ma una Babele di encomiabili proporzioni. Nessuno può dirsi cristiano senza la Chiesa: ce lo insegna la storia narrandoci le tante divisioni e i molteplici scismi che si sono susseguiti nel tempo a causa della personalizzazione del proprio pensiero di Chiesa, lacerandola sempre più.

Questo avviene anche nella Comunità quando il rischio di accentramento prende il sopravvento, portando i fedeli a dire «Io sono di Tizio», «Io di Caio», «Io invece di Sempronio». Parole simili già le scriveva San Paolo quando denunciava le divisioni nelle prime comunità cristiane, perché alcuni si sentivano legati a Paolo e altri ad Apollo. Ma chi sono Paolo e Apollo? Non sono forse strumenti nelle mani di Dio per condurre la Chiesa all’unità che lo Spirito Santo ci dona?

Avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria – ci ha detto l’apostolo –. Liberiamoci dunque della schiavitù della carne che genera contese, invidie e presunzioni.

Siamo molteplici, ognuno con le sue belle e buone caratteristiche, con le proprie capacità da non trattenere per se stesso e per la propria fazione, ma da mettere a servizio del Signore per il bene della comunità. Siamo come tessere di un bel mosaico, ma cosa sarebbe questo se una o più tessere venissero perdute, disperse, frantumate? Lasciamoci prendere tra le mani del più grande artista mai esistito, lasciamoci prendere tra le mani da Dio, perché mediante l’azione dello Spirito faccia di tante tessere un unico mosaico, di tante membra il suo Corpo, di tanti aspetti l’unico volto.

Se da una parte c’è il rischio di accentrare, dall’altra c’è quello del menefreghismo che questa vicenda ci narra:

È la storia di quattro persone, chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno e Nessuno. C’era un lavoro importante da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno lo avrebbe fatto. Ciascuno poteva farlo, ma Nessuno lo fece. Qualcuno si arrabbiò perché era il lavoro di Ognuno. Ognuno pensò che Ciascuno potesse farlo, ma Nessuno capì che Ognuno l’avrebbe fatto. Finì che Ognuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ciascuno avrebbe potuto fare.

Dove desideriamo abitare? A Babilonia o nella santa Chiesa radunata nel nome di Gesù?