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XVIII del tempo ordinario C

31 luglio 2002

 

Cosa siamo noi per sentirci dire: quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Vanità delle vanità: tutto è vanità. Cosa siamo noi, che ci basta un nulla per essere più niente? Siamo come l’erba che germoglia; germoglia al mattino e alla sera è falciata e secca (Salmo 89).

Cosa siamo noi?

In questi giorni, vivendo la morte improvvisa di uno zio, lo zio Angelo, mi è tornata in mente questa domanda ed è naturale che la morte, soprattutto se improvvisa, ci interpelli su ciò che siamo e su ciò che desideriamo. Non a caso Gesù ci racconta la parabola dell’uomo ricco, con una campagna fertile, il quale ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”.

Cosa siamo noi?

Mi trovo a preparare l’omelia funebre e davanti a me ho la pagina del profeta Geremia che parla di Dio paragonandolo a un vasaio che modella e rimodella le sue anfore, quelle fragili meraviglie che nella loro semplicità racchiudono in sé una grande preziosità, proprio perché basta un niente, una scheggiatura, per mandarle in frantumi. E allora mi vengono in mente le parole dell’apostolo Paolo, quando scrive: Abbiamo un tesoro in vasi di creta. Siamo noi quelle fragili meraviglie, siamo noi quei fragili vasi di creta che racchiudono il tesoro prezioso della vita e della fede che Dio ci ha donato.

Ho ricevuto un messaggio in questi giorni, da una cara persona che ha il cuore a pezzi a causa della morte improvvisa e tragica del giovane fratello: “In questo periodo il dolore pare non volersi arrestare e ci lascia muti… tuttavia non riesco a rassegnarmi nel consegnare chi amiamo alla tomba… io so che per quanto straziante sia l’assenza, li consegniamo alla vita in Cristo”.

Ho cercato di rispondere a lei, come cerco di rispondere a me e a ciascuno di voi: “Se la rassegnazione fosse l'unico rimedio a tutto il dolore che ci prende, sono certo che finiremmo per diventarne così apatici da non riuscire più nemmeno a versare una lacrima nel consegnare alla tomba chi amiamo. Ma proprio perché amiamo chiediamo al Signore il dono della fede per vedere i nostri cari vicini a Dio e ancora di più a noi, vivi nel Signore risorto, anche se il dolore del distacco e il vuoto incolmabile sembrano essere più grandi della speranza che avvertiamo. Sono certo che il Signore saprà lenire il dolore e curare le ferite da esso provocate”. 

Non è semplice rimettere insieme un vaso di cotto andato in frantumi e questo non solo a causa della morte improvvisa, come ci ricorda il Vangelo, ma anche relazioni che vanno in mille pezzi a motivo di separazioni, scontri, rotture varie con persone: ma nelle mani di Dio tutto è possibile; lo Spirito del Signore è come quella colata d’oro puro tra i pezzi di ceramica che li unisce e li rende più preziosi, benché il vaso sia rotto.

Mi ritorna allora la domanda: Cosa siamo noi? Siamo fragili vasi nelle mani di Dio, maestro vasaio che plasma e riplasma la nostra vita. Siamo fragili cocci nelle sue mani.

Perché allora ci affanniamo per le cose di questa terra, perché continuiamo a voler accumulare ricchezze, potere, successo? Perché continuiamo a farci la guerra per chi ha di più, per chi ha più visibilità, per chi ha più seguito? Perché andiamo avanti a covare rabbie che diventano desideri di vendetta? Perché continuiamo a creare altari e contraltari per dimostrare agli altri che siamo superiori, più bravi, più validi, più ricchi? Ma ricchi di cosa se non di noi stessi. Poi basta un niente e quello che abbiamo preparato, di chi sarà?, ci chiede il Signore, che ribatte in modo marcato: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».  

Accogliamo allora l’invito di San Paolo che, scrivendo ai Colossesi, dice anche a noi oggi: Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria. E io aggiungo: smettiamola di essere gli idoli di noi stessi per essere idoli degli altri, perché uno solo è Dio: il nostro Padre che è nei cieli, colui che ci dona la vita, quella fragile meraviglia che, sì, basta un niente, una scheggiatura per andare in frantumi, ma che nelle sue mani è un umile capolavoro al servizio suo e della sua Chiesa.