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IV di quaresima

11 marzo 2018

Il nostro viaggio di fede è come salire su un’automobile, allacciare le cinture di sicurezza, mettere in moto e partire. Occorre però prima di tutto sapere dove si è diretti, qual è la destinazione, che strade percorrere. È vero: oggi ci sono navigatori sempre più precisi, che sanno indicarci la via da imboccare, quella a senso unico, quella a fondo chiuso e quella dove è vietato l’accesso; ci indicano la via più corta di percorrenza e il tempo restante per arrivare a destinazione. Praticamente una volta saliti in auto non si può che lasciarsi guidare dalla voce più o meno orripilante e fastidiosa, ma pur sempre utile, di un software. Chi è all’antica come me preferisce andare con senso di orientamento, guardarsi intorno e sperare di aver azzeccato la strada giusta. Modalità a parte, la domanda che mi sorge spontanea è questa: e se fosse che nella nostra vita ci lasciassimo guidare da quel navigatore tutto speciale che è il Signore? Non avrà una voce suadente, ma le sue indicazioni sono più precise di qualsiasi navigatore da viaggio; non avrà una voce come quella di un aggeggio da auto, ma sono certo che, se ascoltata bene, saprà fornirci quelle indicazioni su come vivere e impostare la vita che nessun altro elemento elettronico può fare. Sta di fatto che bisogna partire per questo viaggio e dovunque ci porti non possiamo tornare indietro. La fede ci porta ad esplorare le piazze più belle, ma non d’Italia o del mondo, bensì quelle della nostra vita, della nostra vocazione. Sì, occorre passare da strade principali, poi da quelle più strette e meno importanti, da cardi e decumani, per arrivare quindi al centro del paese, là dove si svolgono le principali questioni cittadine. I greci la chiamavano “agorà”, i romani “forum”: qualsiasi nome abbia, una piazza ci dice che lì è il centro di una vita sociale nella quale l’uomo è immerso. I cristiani quella piazza che è il centro della loro vita ecclesiale la chiamano Golgota, dove il Cristo è stato innalzato e mostrato al pubblico come il relitto più grande, diventando per noi il centro della nostra fede. Nel nostro cammino di fede, per rispondere ogni giorno alla chiamata del Signore, occorre avere come meta e punto di partenza il centro della nostra vita: la passione del Signore che egli annuncia ai suoi dicendo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio». Bisogna andare al cuore della nostra vita cristiana: senza questo centro ogni strada andrebbe a perdersi, ogni nostra vita andrebbe incontro all’ignoto. Guai se non ci fosse in un paese un punto centrale, un luogo di vita sociale, uno spazio dove l’uomo stesso non si senta solo, ma immerso in una vita che non è solo la sua. Guai a noi cristiani se percorressimo le strade della vita senza sapere dove andare, senza una meta, senza una vita ecclesiale che ci aiuta ad avere quelle relazioni che partono dalla croce di Cristo e arrivano ai fratelli: questo viaggio si chiama amore. Ce lo ripete Cristo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Senza questo punto di riferimento che è il Signore, morto e risorto per la nostra salvezza, la nostra vita andrebbe allo sbaraglio, perché ciascuno, senza l’amore che lo caratterizza, penserebbe solo a se stesso, ai propri tornaconti, perdendosi così in quei vicoli ciechi che sono egoismo, indifferenza e solitudine. Non siamo fatti per restare da soli, non siamo creati per perderci, non siamo in vita per morire in noi stessi. È l’amore di Dio che ha dato a noi il suo Figlio che ci spinge a percorrere con l’automobile della nostra vita le strade che ci portano alla piazza centrale della nostra esistenza; è l’amore di Dio che nella croce del Figlio ci dice che la vita va vissuta nel segno dell’amore e del dono. Potremo avere una macchina lussuosa o un mezzo catorcio, potremo avere una vita ricca o povera: poco importa. Ciò che conta è che la nostra fede ci porti al centro della nostra vita e che dalla passione e morte del Signore possiamo trarre la capacità di vivere la nostra vocazione realizzando ciò che il Signore ha pensato per noi, senza chiuderci in noi stessi, ma aprendoci al dono di Dio che è l’amore, quell’amore che ci permetterà di fare ogni cosa nella vita, realizzando noi stessi aprendoci al servizio verso i fratelli. Per arrivare alla piazza e ripartire da questo centro della nostra vita non servono monoposto, come in Formula 1, per non correre il rischio di viaggiare da soli, come se la fede fosse un fatto puramente personale. La nostra vocazione, come ogni vocazione, trova infatti la sua realizzazione quando si vive la piazza, cioè il nostro essere Chiesa e in questa ecclesialità viviamo quell’amore che Dio ci ha donato in Cristo suo Figlio dalla croce, salvandoci così dalla morte eterna di cui spesso ci rivestiamo, quando ci perdiamo nelle nostre chiusure e non ci realizziamo a servizio e per il bene dell’umanità, che vive acanto a noi, nelle nostre famiglie, nel nostro paese.