II di Quaresima A

12 marzo 2017

A cosa abbia pensato Abramo sentendosi chiamato a lasciare la propria terra per una meta non identificata, non lo so. Penso però che non sia stato semplice per lui. Pagano, che non conosceva Dio, da Dio si sente chiamato a una scelta così forte e soprattutto così incerta: «Vattene dalla tua terra e dalla casa di tuo padre verso il luogo che io ti indicherò». E continua subito dopo: «Farò di te una grande nazione e renderò grande il tuo nome», ricordando, inoltre, come in un altro passo gli dirà: «Padre di una moltitudine di popoli ti renderò». Cosa pensare davanti a parole che sembrano davvero promettere bene? C'è poco da dire: si spera sempre che non siano una presa in giro. Se ci mettiamo nei panni di Abramo, il primo pensiero probabilmente è proprio questo. Non è facile infatti accettare una chiamata del genere e accogliere una promessa così grande ad occhi chiusi. Qui c'è davvero da sperare in bene che non sia una bugiardata. Una cosa così cambia la vita. Eppure Abramo accetta. Ma la vita non viene cambiata solo ad Abramo. Prendiamo in considerazione gli apostoli, che sul monte Tabor si trovano davanti a Gesù che si trasfigura, cambia aspetto, diventa glorioso. E Pietro, il grande apostolo, non sa più cosa pensare tanto da lasciarsi scappare quella frase tanto insensata: «Signore, è bello per noi stare qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosé e una per Elia». Era così fuori di testa che non capiva neanche quello che stava succedendo e straparlava, tanto da non pensare neanche di mettere al riparo se stesso e i suoi amici. Non si rendeva conto che Gesù non li aveva portati sul monte per introdurli nella sua gloria, ma solo per mostrargli ciò che sarebbe avvenuto passando prima dalla passione e dalla morte che aveva annunciato loro poco prima. Pietro non capiva che Gesù stava loro mostrando un anticipo di eternità. Ma anche noi come Pietro quando siamo confusi straparliamo, sragioniamo, diciamo e facciamo cose che mai avremmo pensato o che mai avremmo voluto fare. E il Signore richiama i suoi all'ordine facendoli tornare a valle, impedendo loro di confondere questo momento idilliaco con una cosa duratura nel tempo, annunciano loro che il Figlio dell'uomo doveva sì risorgere, ma per risorgere doveva prima morire. Cosa che, sappiamo, Pietro non riusciva proprio ad accettare. Così il Signore vuole che anche noi, come loro, rientriamo in noi stessi dai momenti choc o idilliaci che la vita ci riserva; vuole che torniamo con i piedi a terra e ci rendiamo conto di ciò che egli ci ha detto e ci ha mostrato. Attraverso la trasfigurazione egli vuole preparare i suoi alla passione e morte, ma vuole anche anticipare la sua resurrezione e quindi la possibilità che abbiamo di rinascere a vita nuova. Una sorta di cambiamento certamente, ma in meglio. Abramo cambiando vita si troverà ad essere padre nella fede di una moltitudine di popoli tutt'oggi viventi, mentre gli apostoli tornando a valle, e non restando con la testa tra nuvole, diventeranno i primi testimoni e annunciatori di ciò che Gesù sul monte aveva loro prefigurato, ovvero la sua resurrezione. La resurrezione, che nella trasfigurazione viene annunciata, non ci richiama altro che alla speranza di una vita nuova, una vita che vogliamo simbolicamente racchiudere in un seme di grano, che per portare frutto deve morire nella terra per germogliare. Come Abramo: lascia la sua vita, la sua famiglia, la sua terra per qualcosa di straordinario nutrendo la speranza che quanto Dio gli ha promesso si avveri. Come gli apostoli: lasciano alle loro spalle quel momento quasi fantastico per ritornare alla vita quotidiana e affrontare la prova della passione e morte di Cristo non senza paura, per risorgere a vita nuova. Sì, dovranno affrontarla questa prova anche se sappiamo che proprio nel momento della condanna saranno proprio loro, i suoi amici più vicini, a scappare. Si ritroveranno poi la sera di Pasqua – chi nel cenacolo, chi sulla via per Emmaus –  a vedere il risorto che li conferma nella fede e ridona loro la speranza che con la morte tutto cambia, perché tutto ha un nuovo inizio. Essi stessi dovranno infatti far morire in loro quell'incredulità e quella titubanza che non li avrebbero portati ad essere testimoni di Cristo risorto. Così anche noi siamo chiamati a trasfigurarci, siamo cioè chiamati a morire a noi stessi, alle nostre presunzioni, alle nostre testardaggini che ci chiudono sempre in noi stessi per aprirci alla grazia di Dio che agisce dentro noi, donandoci la speranza di una vita nuova. Non dobbiamo far altro che spezzare il pane con speranza, con la speranza di vedere in noi una nuova possibilità oltre lo sbaglio, oltre il peccato, oltre la morte, quella speranza che viene alimentata in noi dal pane eucaristico, Gesù Cristo risorto. Cambiare non significa stravolgere, ma far morire in noi ciò che è sbagliato per rinascere a vita nuova, come avviene per il seme che cade nella terra. Solo morendo in quella terra potrà dare frutto. E questa è la speranza di ogni contadino, ma è anche la nostra speranza, perché possa avvenire così anche per noi.