XXV del tempo ordinario A
24 settembre 2017
È proprio il caso di dirlo: «I tuoi pensieri, Signore, non sono i nostri pensieri, le tue vie non sono le nostre vie, i tuoi modi di ragionare non hanno niente a che fare con i nostri, i tuoi atteggiamenti non c'entrano niente con noi». Che ragionamenti sono quelli di un padrone che paga secondo bontà e non secondo giustizia? Cosa significa dare all'ultimo arrivato la stessa paga di chi ha passato tutta la giornata sotto il sole lavorando senza sosta e spaccandosi la schiena? Non conosco la risposta, forse perché sono il primo a non capire fino in fondo questa logica. Ma sono certo che la domanda che bisogna porsi è un'altra: perché il Signore tratta il primo come l'ultimo e il primo e l'ultimo sono considerati uguali davanti a lui? Forse davvero la questione lavorativa è secondaria, o meglio, la questione di un lavoro fisico che deve giustamente essere retribuito in proporzione alla fatica. Come è vero che i suoi pensieri non sono i nostri pensieri e che il suo modo di intendere le cose non è uguale al nostro, allora comprendiamo che il lavoro di cui parla il Signore attraverso la parabola dei vignaioli presi lungo la giornata nella sua vigna ha un sapore particolare. Di che lavoro si tratta? Perché chiede al primo assunto: «Sei invidioso perché io sono buono?». Non è stupido Gesù Cristo e sa bene che quell'uomo che si lamenta della paga uguale a quella di chi ha lavorato un'ora sola ha ragione. Gli dice infatti: «Amico, io non ti faccio torto». Non è così ingenuo da fingere di non conoscere il concetto di giustizia sociale. D'altronde lui stesso altrove parlerà di giustizia, mettendo in guardia chi si riempie la bocca di questa parola ma non la pratica: «Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull'anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle» (Mt 23,23). E ancor prima, all'inizio della sua predicazione, come non ricordare il discorso delle beatitudini: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5). La giustizia umana e sociale al Signore sono sempre state a cuore, ma c'è una terza forma di giustizia che spesso dimentichiamo: è la giustizia divina. Essa non va confusa con un buonismo di basso profilo, ma, nel caso dei lavoratori di quella giornata, va intesa come possibilità. Proviamo a leggere la domanda del Signore a quel povero lavoratore in questa chiave: «Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?». Che cosa vuol dare all'ultimo come al primo? E che cosa sono quelle sue cose di cui parla? Non ci leggo altro che una possibilità. Se infatti leggessimo: Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo la stessa possibilità che ho dato a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio?, sicuramente comprenderemmo meglio la logica di Dio, la sua giustizia divina. A tutti e a tutte le ore Dio concede di convertirsi. Lo ha concesso a grandi santi, come Agostino, lo ha concesso a grandi imperatori, come Costantino, in punto di morte, figuriamoci se non lo può concedere a uomini comuni. Certo, saremmo subito pronti a ribattere: «Troppo facile così: sistemarsi all'ultima ora per ottenere la grazia su tutto». Ecco dove sta la nostra invidia: sta proprio lì, pronta a saltar fuori quando la bontà e la misericordia di Dio ci sembrano troppe per quelle persone che non sopportiamo, il nostro vittimismo esplode come una bomba appena si concede qualcosa a chi proprio non digeriamo. Non riusciamo proprio a pensare alla misericordia e alla giustizia divina, perché non siamo più abituati, o forse non lo siamo mai stati, ad usare misericordia e giustizia. Perché la misericordia e la giustizia preferiamo costruircele da noi, a seconda di chi e di che cosa si tratti. In pratica parliamo di una misericordia ad personam e di una giustizia che da una parte giustifica l'ingiustificabile o che condanna l'innocente, a seconda dei soggetti, mentre vorremmo che Dio sia giusto con noi, ci usi misericordia e ascolti le nostre richieste esaudendole pure. Eppure a noi, come a tutti, dà la stessa possibilità: quella di convertirci a tutte le ore, per essere capaci di giustizia umana e sociale su questa terra, senza perdere di vista quella divina che ci aspetta. E allora, come dice l'apostolo Paolo, “se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto”, lavoriamo nella vigna del Signore, senza lamentele, senza tornaconti, senza cercare riconoscimenti, ma lavorando seriamente su noi stessi, cercando davvero ciò che è giusto senza trascurare la possibilità che il Signore ci concede di convertirci. A ogni ora.