XV del tempo ordinario C

10 luglio 2022

 

Chi è il mio prossimo?

La parola prossimo viene dal latino proxĭmus, superlativo tratto dall'avverbio “prope” che significa “vicino”.

In lingua italiana è un aggettivo: Molto vicino, in senso dispazio; in modo figurativo esprime l’essere “affine, come un significato prossimo a quello etimologico; in senso temporale, indica la condizione o la situazione che è sul punto di verificarsi, come il malato che è ormai prossimo alla guarigione o l'estate è ormai prossima; oppure un’immediata successione, come il prossimo mese o domenica prossima.

In grammatica abbiamo il passato prossimo: forma perifrastica del verbo, contrapposta a passato remoto, che indica un'azione del verbo che si è compiuta nel passato ma si ripercuote fino al presente: ad esempio il verbo “morì” indica l'istante della morte, mentre l’espressione “è morto” insiste sulla conseguenza permanente della morte.

Prossimo è anche un aggettivo diretto, immediato, usato in poche espressioni nelle quali si contrappone a remoto o lontano per indicare cause prossime. Indica pure il parente prossimo, che ha stretti vincoli di parentela.

Anche per un linguaggio comune viene usato questo termine indicando gli altri, in quanto membri della collettività e i termini del rapporto sociale: non mi piace sparlare del prossimo”.

Fin qui abbiamo letto i significati della parola “prossimo” dati dal dizionario.

Sempre nel vocabolario, poi, troviamo questa definizione: Prossimo è un sostantivo maschile utilizzato nel linguaggio devoto, perché ogni uomo rispetto a un altro uomo è prossimo in quanto sono uniti dal vincolo della carità cristiana, per lo più con valore collettivo: ama il prossimo tuo come te stesso”, come si legge nei comandamenti.

Ma c’è una domanda, che io non ho mai capito, che Gesù pone a quel maestro della legge dopo avergli raccontato la parabola del buon samaritano: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Allora leggo e rileggo la risposta di quell’uomo: «Chi ha avuto compassione di lui». E Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

C’è qualcosa che non mi torna e cerco di spiegarmelo: se io mi metto nei panni di quel maestro della legge, che si sente dire di muoversi e di agire come il buon samaritano che si è preso cura di quel malcapitato, significa che, sì io sono il prossimo di chi mi sta vicino, ma questo non risponde alla domanda: «Chi è il mio prossimo?». È un po’ come se andassi da Gesù e gli chiedessi: «Maestro, chi è il mio prossimo?» ed egli mi rispondesse: «Tu sei il prossimo del tuo prossimo». Ma io gli ho chiesto chi è il prossimo per me e non di chi sono prossimo io. Quindi prossimo è colui che mi è vicino, ma proprio perché è vicino a me va da sé che io sia vicino a lui. Una questione di reciprocità, insomma.Questo significa che non devo aspettare che l’altro si faccia a me vicino, ma sono io che devo farmi vicino a lui. Non fa una virgola questa mia paranoia logica: è la mentalità di Dio che Gesù spiega a noi dicendoci che non dobbiamo sempre attendere che siano gli altri a farsi prossimi a noi, ma siamo noi a doverci far prossimi agli altri. Perciò la domanda potrebbe suonare: «A chi ti puoi far prossimo?». Posta così ci porterebbe a non rimanere in attesa che siano sempre gli altri a fare qualcosa per noi, ma smuoverebbe ciascuno di noi a fare qualcosa per gli altri. Penso sia questo che Gesù volesse far capire a quel maestro della legge, che – come pensano molti cristiani – riteneva che farsi prossimo fosse solo una questione grammaticale.