XXXII del tempo ordinario B

7 novembre 2021

 

Che immagine struggente quella di una vedova che raccoglie legna per cuocere l’ultima focaccia prima di morire insieme all’unico figlio a causa della carestia. Che immagine triste quella di una povera vedova che si reca al tempio e dona in offerta tutto quello che ha per vivere prima di lasciare questa terra. Eppure queste donne, che la vita ha privato del marito lasciandole sole anche a livello sociale, non cercano compassione, ma solo dignità. La dignità era calpestata dal fatto che una vedova, sola e abbandonata non poteva che risultare un nulla a livello sociale e nessuno poteva farci niente. Nessuno, ma non Dio.

Dio, infatti, manda il profeta Elia a Sarepta di Sidone, luogo apparentemente dimenticato da Dio, e il profeta si rivolge proprio a quella donna mettendola alla prova: «Prendimi un po' d'acqua in un vaso, perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Ed ecco la dura realtà nelle parole di quella donna: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va' a fare come hai detto». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni.

Obbedire al profeta significava obbedire a Dio, che per quella donna non poteva che essere sconosciuto. Malgrado la non conoscenza verso il nostro Dio, la donna accetta di fidarsi di quell’uomo venuto da chissà dove e nel fidarsi di lui si fida della provvidenza di Dio.

Quante persone ai tempi delle grandi guerre e anche ai nostri giorni si sono trovate e si trovano nella condizione di quella vedova. Come non pensare alle donne con i mariti al fronte o dispersi o caduti a causa della guerra; come non pensare a quelle situazioni di solitudine nella quale versano tanti ammalati o anziani i cui figli sono impegnati sul fronte del lavoro o di una vita familiare lontana: fidarsi di Dio significa gettare tutto se stessi nelle mani potenti di un padre che ha cura dei suoi figli anche quando la vita riserva loro situazioni sofferte o atroci. La fede, che tutti ci unisce nell’unica famiglia dei figli di Dio, qual è la Chiesa, ci porta a confidare nella provvidente azione di Dio che non guarda l’apparenza ma il nostro cuore, come Cristo ci insegna nell’osservare la donna che sale al tempio per donare la sua offerta. Un’offerta che potremmo anche noi ritenere misera, ma che «in verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

La fede nel nostro Dio ci porta a fidarci della sua Provvidenza, sapendo che quello che Dio ci manda come segno della sua bontà è molto di più di quanto noi stessi abbiamo o pensavamo di avere, perché la fede si traduce in gesti di affetto e di carità che riceviamo senza sapere il perché o da dove arrivino. Proviamo a pensare a quante volte nella vita Dio si è manifestato a noi in una sorpresa, in una persona, in una situazione inaspettata che ci ha risollevato da una condizione faticosa o di sofferenza. O proviamo a pensare quando il nostro cuore ci ha spinti ad essere strumento della Provvidenza di Dio per qualcuno, diventando immagine del profeta che con una scusa o un motivo è divenuto per un fratello o una sorella presenza di Dio nella sua vita.

La fede ci permette di affidarci a Dio, lasciando che sia lui a muovere verso di noi la sua mano attraverso una persona o una situazione che ci mostra il suo volto, ma è sempre la stessa fede in lui a smuovere il nostro cuore per diventare noi stessi il suo volto per qualche fratello o sorella, donando non parte di noi o il nostro superfluo, ma tutto noi stessi. È nel dono totale di se stessi infatti che si manifesta il nostro Dio, che ha dato tutto se stesso nel suo Figlio Gesù Cristo che – come ci ricorda la lettera agli Ebrei – si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti, non dando qualcosa, ma l’intera sua vita.

La vedova di Sarepta ci insegna a ben riporre la nostra fede in Dio, sapendo che chi confida in Lui non resta deluso, per diventare anche noi profeti di Dio, segno della sua Provvidenza gli uni per gli altri, lodandolo ogni giorno per i benefici che Egli ci offre come segno della sua bontà per noi.

Dalla vedova che sale al tempio impariamo a non aver paura ad impegnare tutto noi stessi senza ipocrisie e senza riserve, senza cercare apparenze, ma solo verità.

Ma c’è un’altra signora che interpella la nostra vita: è la morte; la morte – che in particolar modo in questi giorni affrontiamo nel ricordo dei nostri cari – ci dice che non c’è tempo da perdere per donare tutto noi stessi nel diventare profeti del Bene: chissà quanti oboli, quanti conti abbiamo in sospeso con qualcuno e la morte ci insegna che a forza di aspettare o fingere di niente, non ci sarà più tempo per sistemare le cose, lasciandoci nel baratro del rimorso e del rimpianto, mentre avremmo potuto operare il bene senza paura di perdere la faccia, senza paura di versare quegli spiccioli che ci avrebbero offerto la gioia di chi vive il vangelo sulla propria pelle, anche con la fatica e l’umiltà di saldare qualche conto.