I di Quaresima C

6 marzo 2022

 

L’antico popolo dell’alleanza, dopo aver attraversato il Mar Rosso, sotto la guida di Mosè, si imbatte nel deserto, in un cammino lungo quarant’anni, per arrivare alla meta tanto desiderata: la terra promessa. Per percorrere a piedi il tragitto di strada che va dal Mar Rosso al luogo identificato come il lembo di terra compreso tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, ci si impiega qualche giorno, forse un paio di settimane se preso con calma, quaranta giorni avanzando tra tornanti e lunghe pause. Quarant’anni è davvero eccessivo, come il digiuno di Gesù nel deserto durato ben quaranta giorni, senza toccare cibo. Il numero quaranta non può che richiamarci a un tempo simbolico nel quale Dio mette alla prova l’uomo. È proprio nel deserto che si insinua il tentatore e lo fa mentre sia l’antico popolo che Cristo sembrano aver superato la prova. Infatti, il demonio non viene a noi quando siamo deboli, ma quando stiamo per raggiungere il traguardo, quando ci sembra di avere la vittoria in pugno; ci seduce, ci destabilizza e ci confonde. E l’uomo, a differenza di Cristo, ci casca e resta fregato.

Tornando al popolo d’Israele, non è raro sentire le sue lamentele continue verso Mosè e verso Dio: per la fame e per la sete, per la stanchezza e per la manna. Una continua mormorazione, tanto da portare Mosè a dubitare di Dio e chiedere a Dio la morte per lo sfinimento, a causa di una comunità in continua agitazione e in continua mormorazione, in un deserto che non sembrava avere fine. Il popolo di Dio non aveva compreso che il Signore adempie sempre le sue promesse, non viene meno alla sua parola, a differenza nostra che, in base a come si mette la situazione, decidiamo al momento se far valere la parola data o farla cadere nel vuoto. Il popolo, per raggiungere la promessa, ha bisogno di rinnovare la propria fiducia in Dio, ha bisogno di purificarsi sopportando anche momenti bui, di angoscia, di smarrimento, esercitando la pazienza alimentata dalla speranza. Anche noi, che cadiamo spesso nella tentazione del volere tutto e subito, rischiamo di perdere Dio e di perdere la direzione giusta per la nostra vita. Quando poi le cose non vanno come vorremmo, ecco subentrare la mormorazione. E qual è il luogo migliore dove dare sfogo alle nostre lamentele? La piazza. Un luogo molto comune, nel quale spesso ci si incontra, ci si ferma a scambiare qualche parola e non di rado queste chiacchierate diventano anche pettegolezzi. La piazza è per noi quel deserto che fu per Israele prima e per Gesù poi: è il luogo della prova, della tentazione, della critica, del giudizio; è il luogo dove raccontare tutto a tutti, un tutto, però, che non è nostro, ma di qualcun altro; chissà perché nostro è solo quando diciamo di aver subito dei torti o dobbiamo farci compatire da qualcuno dando la colpa ad altri.

La piazza è un luogo bellissimo per incontrarsi, è il primo luogo dove vive la Chiesa oltre i muri del tempio, è il luogo dove raccontarsi e raccontare con la vita il Vangelo ascoltato nell’assemblea liturgica, è la Chiesa in uscita che tante volte Papa Francesco ci ricorda; tuttavia diventa il luogo privilegiato per cadere nella tentazione di distruggere il nostro essere Chiesa, quando anziché vivere il Vangelo attraverso il perdono, la comprensione, la consolazione e la ricerca di notizie utili a soccorrere e aiutare qualcuno, diventa luogo di lamentele, chiacchiere inutili e calunnie gratuite. Ci liberi il Signore dal cadere nel baratro di questa tentazione, che non edifica ma distrugge la Chiesa.

Con il salmista, allora, preghiamo:

Nessuna breccia, nessuna fuga,

nessun gemito nelle nostre piazze.

Beato il popolo che possiede questi beni:

beato il popolo che ha il Signore come Dio. (Salmo 144)

Alla preghiera dell’Angelus di domenica scorsa, Papa Francesco così si è rivolto alla Chiesa: Gesù ci invita a riflettere sul nostro parlare. Il Signore spiega che la bocca «esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (v. 45). È vero, da come uno parla ti accorgi subito di quello che ha nel cuore. Le parole che usiamo dicono la persona che siamo. A volte, però, prestiamo poca attenzione alle nostre parole e le usiamo in modo superficiale. Ma le parole hanno un peso: ci permettono di esprimere pensieri e sentimenti, di dare voce alle paure che abbiamo e ai progetti che intendiamo realizzare, di benedire Dio e gli altri. Purtroppo, però, con la lingua possiamo anche alimentare pregiudizi, alzare barriere, aggredire e perfino distruggere; con la lingua possiamo distruggere i fratelli: il pettegolezzo ferisce e la calunnia può essere più tagliente di un coltello! Al giorno d’oggi, poi, specialmente nel mondo digitale, le parole corrono veloci; ma troppe veicolano rabbia e aggressività, alimentano notizie false e approfittano delle paure collettive per propagare idee distorte. (Angelus, 27 febbraio 2022)

Ci doni il Signore di perdonarci a vicenda a partire dalle nostre piazze, per sentirci santi e amati da Dio nella sua e nostra Chiesa.