XXV del tempo ordinario A

24 settembre 2023

 

Viviamo nel tempo della mormorazione, della continua lamentela, dell’insistente protesta. Per ogni cosa detta o scritta c’è sempre da recriminare. Siamo un mondo di persone scontente e proprio perché non siamo felici continuiamo a prendercela con tutti e con tutto. Non c’è articolo di giornale che non venga contestato, servizio televisivo che non sia messo in discussione, pubblicazione che non venga additata da quei maniaci della controversia. Viviamo in un tempo e in un mondo nel quale dobbiamo laniarci per il gusto di farlo, dobbiamo lamentarci per affermare noi stessi, dobbiamo sentirci presi in considerazione e allora anche la notizia più semplice, più innocua, più leggera deve essere presa di mira e contestata. Perché? È così normale mormorare?

I battitori di tastiere si giustificherebbero col dire che è lecito e che ogni opinione deve essere rispettata. Ma, forse, occorre dire che ciò che è lecito deve essere almeno sensato, intelligente, avere un certo limite.

Anche ai tempi di Cristo la mormorazione era un’attività in voga e legittima. Consideriamo il fatto che molte volte farisei e capi del popolo seguivano Gesù per osservarlo e trarlo in inganno, per scrutarlo e trovare di che accusarlo, per guardare attentamente a ciò che faceva per aprire la bocca e pronunciare le loro sentenze, accompagnate sempre da continue lamentele. Gesù stesso, raccontando la parabola del vignaiolo che lungo la giornata chiama lavoratori nella sua vigna, mette sulla bocca di uno tra quelli chiamati di prima mattina una mormorazione. Sappiamo infatti come andarono le cose: chiamati nelle diverse ore del giorno, ma pagati tutti con la stessa moneta, un denaro, il salario di una giornata. Mormorazione più che lecita e intelligente, a differenza di quelle che troviamo aprendo computer e telefonini o ascoltando chiacchiere di paese o accendendo radio e televisioni. Una mormorazione che i sindacati oggi prenderebbero come cavallo di battaglia per una manifestazione di piazza degna di sommossa popolare. Beh, giusto, lecito e legittimo dire al padrone: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Tutte cose che sentiamo anche ai nostri giorni: salario minimo sì, salario minimo no; aumenti in busta paga, detrazioni per recuperare le tasse. Potremmo andare avanti per chissà quanto tempo a portare nel nostro quotidiano questa che, più che una parabola, è la notizia di una semplice rivolta sindacale. Questione di giustizia, insomma.

C’è però una mentalità che non è la nostra, ma di Dio. Un Dio, il nostro, che non si schiera contro le nostre lamentele, ma semplicemente ci fa capire il suo modo di agire e di pensare: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Ecco, Dio non ci fa torto, condivide le nostre lamentele, ma nello stesso istante ci rimanda indietro, perché ciò che a noi infastidisce non è l’ingiustizia – chissà quante volte siamo stati ingiusti nei confronti di qualcuno – ma la sua bontà smisurata, quella che sa di perdono, di misericordia, di amore. La sua bontà non la capiamo, anzi, non la vogliamo capire, non ci interessa e questo non perché la troviamo ingiusta – anche perché ognuno delle sue cose fa ciò che vuole – ma perché ci interpella e comprendiamo di non riuscire a metterla in pratica, ad attuarla, a farla nostra. Non riusciamo ad essere buoni, ma ce la facciamo ad essere invidiosi, non riusciamo a perdonare, ma a criticare sì, non siamo in grado di usare misericordia, ma la calunnia ci riesce bene, e l’amore fraterno, non quello delle nuvolette, è solo un teorema irrisolvibile.

Ci lamentiamo con Dio, perché siamo troppo fissati nei nostri schemi mentali e non riusciamo a comprendere il Signore, il suo modo di agire, tanto da doverci dire lui stesso per bocca del profeta Isaia: I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

Cosa fare? Continuare a mormorare, a lamentarci di tutto e di tutti, ad essere arrabbiati col mondo o con le persone che abbiamo preso come bersaglio per i nostri sfoghi da gente impazzita o piuttosto cercare la pace del cuore che ci permette di pensare, ragionare, agire come Dio? Allora dobbiamo anche chiederci: Come fare? La risposta ce la dà ancora il profeta: Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. Solo così, cercando e tornado a Dio, mettendoci in silenzio davanti a lui per guardare a noi stessi come in uno specchio, potremo trovare il riflesso di Dio in noi, un Dio che ascolta i nostri lamenti, ma che ci insegna a cercare la pace del cuore, quella che solo lui può darci, per vivere in questo mondo sereni e fraterni, come Dio verso di noi.