VI del tempo ordinario B

11 febbraio 2024

 

Mentre l’antica legge, data attraverso Mosè, sottolineava come il lebbroso colpito da piaghe doveva portare vesti strappate e il capo scoperto, velato fino al labbro superiore, e doveva gridare: “Impuro! Impuro!” e impuro restava finché durava in lui il male e, in quanto impuro, se ne doveva stare solo, fuori dall’accampamento, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.

Due modi totalmente diversi di approcciarsi al malato, due modi che rispecchiano il mondo di oggi: c’è chi tende la mano al malato per sollevarlo e chi la tende per respingerlo; c’è chi tende la mano per sostenere chi soffre e chi la scrolla in segno di stizza; c’è chi, pur avendo paura ad affrontare la malattia, si fa prossimo, e chi per la stessa paura non ci prova neanche; c’è chi si fa vicino, come Maria verso la cugina Elisabetta, e chi scappa lontano; c’è chi mette in atto la carità e chi se ne frega.

Mentre l’antica legge, o forse l’antico modo di rapportarsi alla malattia, prevedeva che il lebbroso dovesse essere lasciato solo, per la nuova Legge, Cristo, il malato è posto al centro dell’attenzione.

Ricorre oggi la giornata Mondiale del malato, in occasione dell’anniversario delle apparizioni della Madonna a Lourdes; papa Francesco, quasi a mettere in correlazione l’antica e la nuova legge, il vecchio e il nuovo modo di rapportarsi al malato, scrive: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gen 2,18). Fin dal principio, Dio, che è amore, ha creato l’essere umano per la comunione, inscrivendo nel suo essere la dimensione delle relazioni. Così, la nostra vita, plasmata a immagine della Trinità, è chiamata a realizzare pienamente sé stessa nel dinamismo delle relazioni, dell’amicizia e dell’amore vicendevole. Siamo creati per stare insieme, non da soli. E proprio perché questo progetto di comunione è inscritto così a fondo nel cuore umano, l’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria. Non è facile stare accanto a un malato, soprattutto quando non sappiamo cosa dire, non sappiamo cosa fare, non sappiamo come comportarci e preferiamo fingere imprevisti, appuntamenti già stabiliti, fretta – non quella di Maria – per impegni da sbrigare. La relazione di cui parla il papa e che Gesù ci ha insegnato facendosi vicino al lebbroso, non è fatta di sole parole, ma soprattutto di gesti, di presenza, di vicinanza che va oltre il semplice parlare, spesso impacciato, non preparato, difficile da attuare, perché il silenzio e la presenza non sono considerati momenti di grande importanza, ma imbarazzanti. Fare compagnia a una persona malata non significa passare tutto il tempo a parlare per forza: la parola com-pagnia, deriva da com-panatico, ovvero quel pane spezzato e condiviso; cosa c’è di più bello che sostare accanto al letto di un malato per spezzare il tempo, leggendo una storia, ricordando vecchi tempi o più semplicemente ascoltando quel silenzio che sembra straziante, ma che in realtà è abitato dal Dio della consolazione?

Passiamo allora dall’antica legge che respingeva il malato, escludendolo dalla comunità per timore del contagio, al contagiarci di carità che pone al centro del nostro cuore e delle nostre attenzioni il malato, così da non lasciarlo solo. E se veniamo a conoscenza di qualche malato, non esitiamo a stargli accanto, a chiedere se gradisce la vicinanza del sacerdote e del ministro dell’eucaristia. Saremo noi i primi a farci prossimi a quella persona che, come tutte, è stata creata non per essere lasciata sola. Sì! Compiamo gesti di carità che ci faranno crescere nell’amore e continuiamo a insegnarlo ai nostri ragazzi, spesso ricurvi sul quel piccolo schermo e chiusi in se stessi. Insegniamo loro che non bisogna vergognarsi di fare il bene, ma il male, perché il bene compiuto nel nome di Cristo rende la nostra vita autenticamente meravigliosa. Sapere che un’adolescente della comunità, dopo aver fatto visita a una famiglia provata dalla sofferenza durante gli incontri di catechesi, oggi continua personalmente a far visita a queste persone, perché – mi dice – sono speciali. Che meraviglia!

Continua il papa nel suo messaggio per la Giornata del Malato: A voi, che state vivendo la malattia, passeggera o cronica, vorrei dire: non abbiate vergogna del vostro desiderio di vicinanza e di tenerezza! Non nascondetelo e non pensate mai di essere un peso per gli altri. La condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi. In questo cambiamento d’epoca che viviamo, specialmente noi cristiani siamo chiamati ad adottare lo sguardo compassionevole di Gesù. Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato e scartato. Con l’amore vicendevole, che Cristo Signore ci dona nella preghiera, specialmente nell’Eucaristia, curiamo le ferite della solitudine e dell’isolamento. E così cooperiamo a contrastare la cultura dell’individualismo, dell’indifferenza, dello scarto e a far crescere la cultura della tenerezza e della compassione.

E conclude: Gli ammalati, i fragili, i poveri sono nel cuore della Chiesa e devono essere anche al centro delle nostre attenzioni umane e premure pastorali. Non dimentichiamolo! E affidiamoci a Maria Santissima, Salute degli infermi, perché interceda per noi e ci aiuti ad essere artigiani di vicinanza e di relazioni fraterne.

Facciamoci imitatori di Cristo, come ci ha detto l’apostolo Paolo.